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Blade Runner 2049

Non è fantascienza, è realtà

Sia il primo straordinario Blade Runner che questo hanno sofferto di un malinteso mai ben chiarito: non sono film di fantascienza. Lo sono come ambientazioni e in quanto visioni di un futuro che non definirò distopico perché non se ne può più, ma quantomeno di futuro nemmeno tanto remoto, ma prossimo ad accadere. Questo nuovo episodio è ambientato per esempio nel 2049, 30 anni dopo il primo episodio. E se si va indietro di 30 anni si arriva al 2019, cioè dopodomani circa. Serviva un aggiornamento del mondo immaginato da Ridley Scott nel 1982 perché quello popolato da cacciatori di replicanti difettosi o semplicemente desiderosi di avere una vita propria non è il mondo che presumibilmente accadrà fra due anni, per quanto non sia mai detto.

Insomma, non si tratta di fantascienza e credo che la delusione di molti nel vedere il primo e ora anche il secondo nasca proprio dall’aspettarsi un ritmo narrativo da Guerre Stellari o un dispiegamento di forze benigne e maligne che renda chiaro da che parte stare. La grandezza enigmatica di BR è sempre stata invece nel suo essere una narrazione molto moderna perché non forniva risposte e non ti suggeriva da che parte stare. Da quella degli umani perché siamo umani o da quella dei replicanti, creati dagli umani e da questi cacciati e uccisi perché pretendono di stabilire una propria identità esistenziale? Chi sono gli usurpatori e chi gli usurpati? Non è evidente, non è facile e quindi BR ti lasciava con questo dubbio: che quello che sembrava non fosse, che le risposte non fossero così chiare o non ci fossero nemmeno, alla fine. Del resto lo stesso Philip K. Dick scriveva di fantascienza per parlare d’altro e la usava in modo simbolico. Forse la fantascienza era il racconto che gli veniva più congeniale per tradurre le sue visioni psicotrope, gli squarci dimensionali che riusciva ad aprire con la sua straordinaria immaginazione coadiuvata da molte droghe. Non a caso è ricordato come scrittore di fantascienza sebbene chiunque l’abbia letto non possa concludere che è davvero limitante relegarlo in quel confine: Dick ha una statura letteraria che non lo fa appartenere a nessun genere se non a quello della letteratura pura. Moderna, aggiungo, e quindi carica di temi che sono contemporanei: l’identità, la memoria, il rapporto con il tempo, l’inesplicabilità della condizione umana al di fuori del discorso su Dio.

Per cercare se stessi bisogna conoscersi o almeno essersi riconosciuti una volta. Ma se sei un replicante non hai un passato, non hai un Io a cui tornare. Non hai una casa, nemmeno simbolica. Non sai esattamente dove devi tornare, nello spazio e nel tempo. I tuoi ricordi sono ricordi di altri o memorie sintetiche: ciò che ricordi non ti appartiene o non è mai davvero accaduto. Tu non hai un passato perché non ti sei evoluto, sei sempre stato così e morirai così, come sei nato e come sei stato programmato a essere.

Da quella stessa nebbia visiva e concettuale riprende Blade Runner 2049: una distesa di terra polverosa fuori da Los Angeles sorvolata dall’agente K, un Ryan Gosling monoespressivo, come si confà a un replicante. Il suo compito è sempre il medesimo: cacciare i residui di una prima generazione di replicanti ed eliminarli. La vicenda prende avvio dalla scoperta di un cadavere sepolto da decenni (3, per l’esattezza — esatto: 30 anni) nella proprietà del replicante: ossa di donna che si scopre essere morta di parto. Ma non si tratta di donna umana, ma di una replicante. È accaduto insomma l’impensabile: una vita umana è stata generata da una non umana. Stop agli spoiler.

Il dubbio è la condizione umana e il dubbio si insinua anche — seppur in maniera mai esplicita — anche nell’agente K. Prima prende la forma delle domande che un detective si pone cercando di risolvere il caso a cui lavora e poi vengono rivolte a se stesso: i suoi pochi ricordi sono reali? Ricorda un solo fatto — quel solo fatto — per caso o perché è importante? Quel dettaglio della sua infanzia lo definisce come adulto e gli indica la strada della sua ricerca?

L’intelligenza di Denis Villeneuve, sicuramente uno dei registi più bravi e interessanti attualmente, sta nell’aver rispettato il copione tematico del primo BR, per continuarlo in una vicenda nuova ma articolata secondo gli stessi argomenti: cosa ci definisce? I ricordi sono le forze che danno forma alla nostra individualità? Il passato ci descrive e scrive il nostro futuro? E se non abbiamo un passato reale? I replicanti possono provare i sentimenti che danno spessore ai ricordi? Il ricordo in sé è un’immagine ma la forza con cui lo percepiamo e riviviamo è data solo dal sentimento che si è depositato nella memoria e che ne ha tracciato la storia e lo svolgimento. Il dubbio è un criterio di giudizio o un fumo, una nebbia?

Niente è chiaro in Blade Runner (e mi riferisco allo stesso modo al primo e a questo nuovo): non c’è una risposta definitiva e non si sa dove stiano il bene e il male. Perché non esistono più, perché non c’è la morale che è un criterio di giudizio basato sul costume e sul vivere sociale. La società è disgregata ed esplosa e non c’è più un disegno comune se non quello di vivere in un’unica asfittica e distrutta megalopoli come Los Angeles. Ci si vive perché la città in qualche modo protegge ma non definisce una comunità: mette insieme solo individui che sono dentro contro un esterno che è ostile e dove nessuno si avventura mai.

La narrazione di Villeneuve ha una direzione (si tratta pur sempre di un film) ma ha anche delle lentezze fastidiose in alcuni passaggi: movimenti di scena o di macchina che si intuiscono al 3° secondo ma che si protraggono per altre decine di secondi, dialoghi con pause sospese che fanno sembrare che i protagonisti non abbiano capito cosa gli si chiede o cosa devono dire, scelte estetiche esagerate e incomprensibili, specie nelle ambientazioni nella sede dell’azienda che produce la nuova generazione di replicanti Nexus: ambienti oltremodo minimalisti (piattaforme di arenaria perfettamente ambrata immersa in vasche di acqua che riflette sulle pareti cangianti — e irritanti — onde) nei quali si muove Neander Wallace (Jared Leto) proferendo le sue enigmatiche battute da santone capitalista. Direi la parte più debole del film, suvvia.

Blade Runner non è mai stato un film di fantascienza. Non è mai stato ambientato nel futuro, direi. Blade Runner ha sempre parlato di noi, oggi. Per quello è possibile amarlo anche se non lo si capisce o non amarlo perché ci si sente traditi dal suo non essere fantascienza (che non vuole, ripeto, essere).

Nelle storie l’uomo ha sempre cercato risposte e conferme, indirizzi o indizi. Ma non in quelle moderne: ciò che sta accadendo ancora adesso può essere narrato ma non si fermerà sempre poco prima della fine, lasciando la parola finale sul punto di essere pronunciata. Non si esce da Blade Runner con delle risposte. Non se ne esce affatto perché in Blade Runner ci siamo, dal 1982 circa, o dal 2019 o anche nel 2049. Non sappiamo chi siamo, non sappiamo dove andiamo e accumuliamo una memoria visiva e testuale sugli schermi o su server remoti e un giorno ci chiederemo se quelli siamo noi. Siamo noi in quelle foto? Siamo noi quelli descritti da quelle parole? Chi siamo noi, alla fine?

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